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domenica, 07 settembre 2008 | |||||
Poeta nato a Roma il 7 settembre 1791 e morto a Roma il 21 dicembre 1863. Giuseppe Gioachino Belli. Il poeta che ha reso il dialetto romanesco lingua letteraria Giuseppe Gioachino Belli trascorre un’infanzia assai travagliata a causa della morte del padre, avvenuta quando aveva solo undici anni, e in seguito di quella della madre (il poeta era all’epoca sedicenne). In quei tristi anni Belli conosce la povertà nonostante goda del sostegno di qualche ecclesiastico e di alcuni nobili. In questa difficile situazione il poeta è costretto ad adattarsi a modesti impieghi sia nel pubblico che nel privato. Nel 1813 è tra i fondatori dell’Accademia Tiberina, della quale è anche il segretario (nel 1850 ne diventerà presidente). Data la sua buona erudizione dà lezioni private di italiano, geografia e aritmetica. All’età di venticinque anni sposa la facoltosa vedova Maria Conti (più anziana di lui di tredici anni), dalla quale avrà il figlio Ciro. In questo periodo lavora presso l’Ufficio del Bollo e Registro, incarico che mantiene fino al 1826. Il matrimonio ha, intanto, portato al Belli la tranquillità economica consentendogli di dedicare parte del suo tempo alla poesia. Nel 1824 comincia a redigere il suo “Zibaldone” che dimostra una profonda conoscenza del romanticismo e dell’illuminisimo nonché della storia della letteratura italiana. La vita agiata gli permette di viaggiare (ma tutta la sua esistenza si svolge a Roma) e di entrare in contatto con importanti letterati quali Carlo Porta che ha occasione di incontrare a Milano. Le poesie milanesi del Porta spingono il Belli a scrivere i suoi sonetti in dialetto romanesco. Come il poeta lombardo anche Belli dà voce alle classi popolari, alla plebe e attraverso gli occhi degli umili realizza dissacranti descrizioni di un clero dedito con cupidigia alla gestione del potere temporale e di una nobiltà pervicacemente attaccata ai propri privilegi. Protagonista assoluta dei “Sonetti” è la plebe romana, oppressa e ignorante, impossibilitata a migliorarsi, che il poeta ritrae in gustosi e ironici quadretti di vita quotidiana. Il senso della sua opera è rinvenibile nell’introduzione dal lui scritta il primo dicembre 1831, nella quale afferma che la sua scrittura nasce dal desiderio di “lasciare un monumento di quello che oggi è la plebe romana”. La redazione delle sue liriche lo impegna intensamente soprattutto nel periodo che va dal 1830 al 1837, ma per qualche motivo Belli non sembra intenzionato a dare alla stampe la sua produzione dialettale che fa invece circolare tra gli amici, spesso solo oralmente. Il poeta romano avrebbe voluto far sparire completamente i suoi sonetti e a tal proposito aveva chiesto a un amico di bruciarli tutti ma fortunatamente l’uomo non eseguì l’incarico ma conservò gli scritti per poi consegnarli al figlio del poeta. Nel 1837 la morte della moglie fa ricadere Belli in una situazione economica precaria. Di fronte alla nascita della Repubblica Romana e alla rivoluzione del 1848 assume una posizione conservatrice ergendosi a difensore del potere papale. Gli viene conferito l’incarico di censore teatrale che svolge con particolare scrupolo (tra le opere da lui proibite il “Rigoletto” di Giuseppe Verdi e il “Mosé” di Gioacchino Rossini ). Hanno detto di lui: “Ma il Belli, scrivendo a Roma, nella roccaforte dell’oscurantismo, dove le notizie dei tentativi di rinnovamento della Lombardia (o di Napoli) assumevano un colorito favoloso; scrivendo in una città dove i privilegi e le ipocrisie duravano da secoli, senza mutamento, attribuisce giustamente ai suoi popolani una filosofia di sorridente rassegnazione (del resto il Belli stesso era un inveterato conservatore). I protagonisti del Belli sono meno drammatici di quelli del Porta perché nella ribellione verbale scaricano ogni impulso all’azione; su di essi, anzi, finisce per riversarsi la corruzione dei dominatori, confondendoli con essi” (Cesare Segre) “L’immagine che Belli si forma della plebe romana, ‘abbandonata senza miglioramento’, nega ogni intento positivo alla sua poesia: egli non cerca una simpatia, una partecipazione, una solidarietà con il mondo rappresentato. Nella scelta di quel linguaggio e di quel mondo egli rifugge da ogni identificazione, riconoscimento di sé, affermazione di valori individuali o collettivi: l’uso del dialetto romanesco esprime invece, fino a farlo esplodere, un senso, a lungo covato e represso, di insoddisfazione, che pesa su tutta la vita dell’autore e non riesce ad esprimersi nella sua produzione letteraria ufficiale. Far parlare il popolo romano, estraneo alla storia e alla cultura, senza alcuna speranza, significa fare una letteratura che non cerca nessun ideale e nessuna illusione e nega valore sia all’individuo sia alla società, con un estremismo tragico ignoto al Romanticismo italiano. L’eccezionale singolarità della poesia di Belli consiste nel fatto che questo estremismo tragico si realizza non attraverso una indagine sui meandri e le complicazioni dell’io, ma attraverso una potente rappresentazione della più concreta vita quotidiana, uno scatenamento di irrefrenabili forme comiche e grottesche” (Giulio Ferroni) “Tra le poche vette che emergono nel paesaggio collinoso della poesia italiana dell’età romantica, spiccano quelle rappresentate dall’opera di Carlo Porta e Giuseppe Goiachino Belli. Il riconoscimento della loro grandezza, oggi unanime, si manifestò con faticosa lentezza: vi ostava la tenace resistenza del pregiudizio circa la costitutiva inferiorità del dialetto”(Pietro Gibellini) | |||||
http://www.fondazioneitaliani.it/index.php/en/Giuseppe-Gioachino-Belli-biografia.html | . | Last Updated ( venerdì, 21 novembre 2008 ) |
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.DUECENTO SONETTI, di Giuseppe Gioachino Belli - pagina 1
- [ Traduzir esta página ]Nella seconda metà del secolo XV, poco lunge da codesto avanzo di statua teneva la sua botteguccia un sartore nominato Pasquino, che era uomo molto allegro, ....
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